In questi giorni si è parlato tanto di Benedetto XVI, della sua immensa cultura e della sua spiritualità raffinata. Ma in questi giorni è venuta a mancare una figura religiosa complementare alla sua, quella di fratel Biagio Conte.
Sia Ratzinger che Biagio Conte, pur diversissimi, sono complementari. Sono figure "medievali". Benedetto XVI richiamava, con la sua grandissima preparazione, le grandi figure domenicane tra cui spicca San Tommaso d'Aquino. Biagio Conte, inutile dirlo, ricorda San Francesco d'Assisi. Lo ricordava certo più lui del Pontefice che porta il nome di "Francesco". E ricordiamo il sogno di papa Innocenzo III su San Domenico e San Francesco che riparano la Chiesa.
E qui sta il grande equivoco quando si parla della povertà francescana. San Francesco, come Biagio Conte, hanno perseguito scelte individuali. E la parte "materiale" di queste scelte ha un peso minimo: non è pauperismo populistico.
Questi personaggi non vogliono imporre il loro stile di vita al mondo, e soprattutto non è la povertà in se stessa ad essere vista come buona. Semplicemente costoro sentono "inutile" l'affannarsi e correre dietro a beni materiali e vogliono dedicarsi appieno alla ricerca interiore, liberi da preoccupazioni e accontentandosi di poco. Scelta non per tutti. E che neppure nel Medioevo veniva estesa a tutti i religiosi. Sono scelte.
Ben diverso il pauperismo populista che sostiene che la povertà è bella in se stessa e che chi è ricco va criminalizzato.
Solitamente è una trappola. Una trappola ordita da chi ricco e potente lo era davvero.
Nei regimi socialisti anche solo possedere uno pezzo di terra o un chiosco di gelati era una cosa da "sporchi capitalisti" mentre Lenin si godeva la sua collezione di Rolls Royce Silver Ghost e Breznev aveva un parco di auto americane immenso. Oggi i ricconi del WEF ci dicono, dai loro yacht e jet privati, che non dobbiamo possedere nulla per il bene del pianeta.
La povertà imposta è solo miseria, e non ha nulla di spirituale: questo lo spiegava anche don Camillo al pretino postconciliare don Chichì nell'ultima opera di Guareschi. Perché anche la Chiesa bergogliana si è prestata a questo giochino che nulla ha di autenticamente francescano.
Quindi queste figure vanno capite: capire San Francesco, al netto delle banalizzazioni hippy alla Zeffirelli, è più difficile.
In Russia esistono figure simili, si chiamano "folli in Cristo". Forse lo zar Alessandro I, quello di Napoleone, finse la sua morte per diventare il "folle in Cristo" Fëdor Kuzmič (la sua tomba è stata trovata vuota...).
Ma non ha obbligato tutta la famiglia Romanov a fare lo stesso. E la componente spirituale, strettamente personale, prevale su quella materiale. Diffidate di chi mette l'accento sulla povertà in quanto tale.
È ben altro quel che conta.

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Andrea Sartori
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